Se volessimo tracciare su una tela immaginaria i tratti della santità cristiana, uno dei segni più evidenti sarebbe, con tutta probabilità, quello della povertà.
E di questa povertà, involontario paladino universale è diventato Francesco di Assisi, giovane borghese assisiate che, nel mezzo del cammin di sua vita, ha compreso che l’unico atteggiamento utile per seguire l’amato Signore povero e crocifisso, era imitarlo facendosi ammaestrare da questa nobile virtù.
Sulla scia di Francesco, anche Teresa di Calcutta ha scoperto l’alta dignità della povertà evangelica e, come tanti santi nella storia, si è fatta prossima del Cristo viandante povero, battuto dai briganti della vita.
Per comprendere l’importanza che la povertà ha assunto nella vita dei due santi possiamo abbozzare un parallelismo interessante; si può affermare che la loro vocazione, l’identità nuova consegnagli dal vangelo, sia legata proprio a questa virtù, via di accesso privilegiata al cuore stesso di Dio.
Dal testamento di Francesco di Assisi apprendiamo quanto importante fu l’incontro con i lebbrosi. Normalmente quando il testatore mette per iscritto le sue ultime volontà inizia da quelle più rilevanti e, se prendiamo in mano il testamento di Francesco, l’incipit dello scritto non riporta nessuna esperienza mistica (addirittura del dialogo con il crocifisso di S. Damiano, egli non parlerà mai in maniera aperta), bensì racconta di un incontro, quello con la misericordia di Dio rivelatasi a lui attraverso i fratelli lebbrosi.
Scrive il santo di Assisi:
«Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanatomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo».
Nella rilettura della vita fatta poco prima di morire, Francesco riconosce che l’incontro con la povertà dei fratelli gli ha aperto gli occhi sulla sua e in quel momento di verità ha sperimentato la misericordia di Dio che lo veniva a salvare dalle sue pretese di gloria, dal suo mastodontico Io. Tanto questa esperienza fu decisiva per la crescita del giovane Francesco, che decise di andare ad abitare con i fratelli poveri mettendosi a loro servizio. Ma, come abbiamo scritto nel titolo di questo breve contributo, la povertà non viene amata in se stessa, bensì diventa l’occasione per aprirsi alla contemplazione del Cristo povero e della sua madre poverella che niente hanno avuto sulla terra. A imitazione del suo Signore, anche Francesco vorrà possedere nulla su questa terra, proprio per assomigliare in tutto all’Amato Gesù che di lui tanto aveva avuto misericordia.
Al pari del santo Francesco, anche Teresa trova la fonte della sua conversione e la sua susseguente identità di madre universale, proprio dall’incontro di quel povero steso a terra che, rivolgendole la parola le dice: Ho sete!.
Dopo quella frase fatta di due semplici e povere parole, Teresa inizierà a mettere in discussione la sua esistenza comprendendo, piano piano, che il Signore aveva desiderio che lei ponesse i fratelli poveri al centro della sua esistenza. Anche nella storia della santa di Calcutta il fratello povero è immagine del Cristo che visita l’umanità sotto le spoglie di chiunque chiede aiuto, di chi è lasciato al bordo della vita.
Nella vicenda di Teresa, come in quella di Francesco, i poveri diventano veri e propri compagni di vita, parte costitutiva della loro esistenza, della loro identità di battezzati e figli di Dio.
Volendo sintetizzare l’esperienza di Francesco e Teresa potremmo utilizzare alcune celebri frasi della madre dei poveri che dice:
La povertà non è stata creata da Dio, siamo noi che abbiamo creato la povertà e che Per servire meglio i nostri poveri dobbiamo comprenderli e per capire la loro povertà non c’è altro modo che sperimentarla.
Perché: I poveri sono magnifici, sono meravigliosi!
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