Si può raccontare la storia del pane: quali ingredienti, quali ricette, i molti segreti, i tempi e i modi per fare un pane davvero speciale. E tuttavia il racconto più bello e interessante è quello in cui il pane viene assunto e partecipato come momento importante di una relazione.
Può essere spezzato a fine giornata come contrassegno di una fatica condivisa, oppure spartito come sigillo di un incontro inatteso o di un’amicizia rinnovata; intinto in un sugo particolare può diventare simbolo di un’esperienza eccitante o di un rapporto amoroso. La condivisione del pane in simili contesti si esplica quasi sempre in forma rituale che diviene sacramento di un dono ricevuto o di una promessa durevole o di un legame permanente. E lo si capisce proprio dal significato dell’assunzione comune del pane, il quale, grazie anche ai gesti e alle parole, si rivela molto più grande del mero bisogno di cibo. Ma vi è pure un aspetto potenzialmente drammatico in tale condivisione; infatti, essa può fingere una relazione che non c’è, o dichiarare una promessa poi non mantenuta, o mostrare una comunione non confermata dai fatti.
Nell’ultima cena di Gesù tutti questi aspetti si sono fusi in uno unico racconto e in un unico rito: da un lato la promessa mantenuta di un’alleanza perenne e, dall’altro, il tradimento di quella stessa promessa che pure era stata accolta con commozione; da una parte, il sigillo di un rapporto amoroso per la vita e, dall’altra, la fuga di fronte alle esigenze radicali di quell’impegno. Anche se non lo sappiamo, quel rito e quel racconto sono ancora il centro pulsante della nostra vita e della nostra storia.
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